La pandemia ha cambiato il nostro modo di vivere e ha modificato le strategie delle aziende, comprese quelle del settore grafico e cartotecnico. Pronte a diversificare le produzioni per dare un contributo nell’affrontare l’emergenza e per trovare nuovi business.
Mascherine e guanti ma anche barriere protettive in plexiglass, cartelloni per la segnaletica in ufficio, fabbriche e negozi – imposti dalle misure di sicurezza previste in tempo di Coronavirus – piuttosto che contenitori di dispositivi anti-contagio, a partire da gel e disinfettanti. Quelli che sempre più troviamo all’ingresso di supermercati o luoghi pubblici.
Se la pandemia ha cambiato il nostro modo di vivere – all’insegna nella Fase 1 del “#iorestoacasa” e poi di una graduale ripartenza – ha modificato anche le strategie delle aziende, comprese quelle del settore grafico e cartotecnico. Pronte a diversificare le loro produzioni da una parte per dare un contributo (come hanno fatto le imprese della meccanica e della moda per esempio) all’emergenza cominciando a produrre ciò che in Italia non si faceva più (leggi mascherine) e dall’altra a trovare nuovi business che potessero, anche se solo in parte, compensare la caduta delle commesse della stampa editoriale e commerciale, colpite dalla frenata delle attività con il lockdown.
Parola d’ordine: diversificare
Una diversificazione che, nata ai tempi del Coronavirus, non sembra destinata a concludersi quando, finalmente, finirà l’epidemia. Perché, come ricorda Paolo Bandecchi, fondatore e presidente di Rotolito che in Nava Press ha avviato – grazie anche ai recenti investimenti in macchinari industriali per la stampa e il taglio di materiali alternativi alla carta e con un positivo riscontro del mercato – la produzione di barriere in plexigass personalizzate per rispondere alle richieste di distanziamento sociale, anche le aziende della stampa e dell’imballaggio devono adattarsi ai nuovi stili di vita. Per esempio il boom del delivery – con la chiusura di bar e ristoranti – e quindi del packaging necessario per contenere i cibi che vengono consegnati a domicilio. Un mercato nel quale, anticipa sempre Bandecchi, anche Rotolito – dove con Nava Press era già partita con successo la diversificazione nel packaging, a cominciare da quello destinato a griffe e brand di moda e lusso – sta pensando di entrare.
Solidarietà e conversioni
Nel delivery invece è già presente – e in futuro ancora di più – con i lunch box in cartoncino e anche materiali biodegradabili e compostabili, la Pool Pack di Reggio Emilia. Uno dei gruppi leader, con 450 dipendenti, 180 milioni di euro di ricavi e sette siti produttivi, nell’imballaggio alimentare. A partire dai sacchetti per il pane. Che, durante l’emergenza Coronavirus, racconta uno dei fondatori e amministratori delegati dell’azienda di Sabbione di Reggio Emilia, Renato Sandoni, si sono colorati con i disegni ispirati dai figli dei dipendenti per lanciare, durante l’emergenza Covid-19, il messaggio “dell’andrà tutto bene” e raccogliere fondi per la Fondazione Vimm di Padova, l’istituto veneto di medicina molecolare impegnato nella ricerca di farmaci efficaci contro il Covid-19 (a cui Pool Pack ha anche donato 100 mila euro) e alla Fondazione Giuseppe Orlando, che dà aiuti in caso di emergenze nazionali come è, oggi, quella sanitaria.
Ma oltre alla solidarietà, durante l’epidemia, l’azienda reggiana, specializzata nella produzione di contenitori, sacchetti, vaschette in carta e cartoncino, destinati a panifici, ortofrutta, macellerie, pescherie e ristorazione, con un occhio attento all’ecosostenibilità e al riciclo, ha anche cominciato la produzione di guanti in polietilene HD, quelli che si indossano all’ingresso per esempio dei supermercati per tenere il carrello e riempirlo oppure per insacchettare l’ortofrutta. «Abbiamo riconvertito le macchine che fanno sacchetti di plastica – spiega Sandoni – alla realizzazione di guanti monouso per sopperire alle richieste della grande distribuzione: in poche settimane le domande sono quintuplicate». Come sono cresciute e aumenteranno sempre di più quelle per involucri e scatole per cibo e bevande da consumare a passeggio o da ricevere a casa.
Le mille vite del tessuto non tessuto
La prima azienda di produzione di packaging – che poi ha visto numerose imitazioni – che fin dall’inizio dell’emergenza Covid-19 aveva diversificato la produzione realizzando mascherine civili di protezione (quelle identificate con l’articolo 16 del decreto legge del 16 marzo) è stata la BC Boncar di Busto Arsizio (Varese). Specializzata in packaging luxury per importanti case di moda italiane e internazionali (tra le quali Hugo Boss, Louboutin, H&M), l’impresa varesina (circa 2,5 milioni di euro di ricavi l’anno scorso) ha iniziato la produzione di mascherine per ospedali e amministrazioni pubbliche e poi per clienti privati, a cominciare dalle aziende che serve con l’imballaggio-moda. «Non potevamo stare a guardare mentre c’era chi speculava sulla mancanza di mascherine durante l’emergenza sanitaria», ricorda Paolo Bonsignore che, con la moglie Anna Laura Carella, ha fondato e guida la BC Boncar dal 1998. Tra i prodotti che l’azienda progetta e realizza ci sono anche i sacchetti di tessuto che avvolgono gioielli, occhiali, oggetti di arredo. Ed è guardando a quel tessuto che a Bonsignore è venuta l’idea. «Ho pensato che quel materiale, che di solito protegge articoli di lusso, poteva trasformarsi in uno strumento di protezione non meno prezioso. Anzi.
«Mascherine in diversi materiali (tessuto non tessuto, poliestere 100%, cotone, spool lace) non classificabili come dispositivi medici ma comunque utili per proteggere innanzitutto clienti e fornitori che arrivavano in sede sprovvisti». E poi fornite agli impiegati amministrativi dell’ospedale di Busto Arsizio (non al personale sanitario per cui sono previste mascherine con diversa certificazione) quindi a decine di Comuni italiani, alla Croce Rossa, alla Protezione Civile con una produzione arrivata fino a 30 mila pezzi al giorno, pur non trascurando il core business del packaging luxury.
Oltre lo sport
Tra le apripista della diversificazione produttiva entrando nel campo delle mascherine c’è anche Energiapura. Azienda vicentina specializzata nella produzione di abbigliamento e accessori per i mondi dello ski racing e dello snowboard, Energiapura ha fatto leva sul suo know how e la sua dotazione tecnologica per ideare e sviluppare – in tempi brevissimi – una mascherina protettiva che potesse avere i requisiti di dispositivo medico Classe I. Studiato per consentirne l’utilizzo per diverse ore e durante lo svolgimento di attività lavorative, il dispositivo di protezione facciale EP PA 2020 (Energiapura Pure Air) è realizzato con tessuti che consentono il filtraggio dell’aria e la traspirazione, e può essere riutilizzato. Tuttavia, Energiapura si è spinta anche oltre, imprimendovi l’essenza del brand: grazie alla stampa sublimatica (realizzata con i sistemi di stampa JV300 di Mimaki), la mascherina può essere personalizzata.
«L’uso del colore contraddistingue da sempre il marchio Energiapura e non vogliamo abbandonarlo nemmeno in questo frangente», racconta Alberto Olivetto, fondatore e amministratore delegato di Energiapura. «La stampa a sublimazione – aggiunge – ci consente di dare un volto diverso alla crisi Covid-19 ed è questo il nostro messaggio. Vogliamo portare colore e un po’ di ottimismo anche in questo momento difficile».
Prontezza di riflessi
Un altro grande gruppo italiano della stampa, la Grafica Veneta di Fabio Franceschi, ha percorso fin dall’inizio dell’epidemia, rispondendo alla richiesta di aiuto del governatore veneto Luca Zaia, la strada della produzione di mascherine protettive filtranti in tessuto non tessuto, realizzate con la linea della KBA Compacta installata nell’impianto di Trebaseleghe. I primi due milioni di pezzi sono stati distribuiti nel Veneto, una delle regioni più colpite dalla pandemia, e poi l’attività è proseguita con altre centinaia di migliaia di pezzi – per forniture sia in Italia sia all’estero a cominciare dai clienti del gruppo di Franceschi – per una diversificazione produttiva che non è stata frenata dalle polemiche per il servizio della trasmissione Striscia la notizia che aveva messo in dubbio la conformità delle mascherine di Grafica Veneta. Conformità che l’azienda ha ribadito essendo la produzione rispettosa di quanto previsto dall’articolo 16 del decreto legge del 17 marzo per le mascherine cosiddette civili e non chirurgiche e anche certificata (non ortotossicità, non irritante per la pelle e capacità di barriera microbica) dalle analisi effettuate, fanno sapere a Trebaseleghe, da primari laboratori di analisi. Produrre mascherine comunque non ha distolto Fabio Franceschi dall’attività principale di Grafica Veneta (150 milioni di fatturato nel 2019), la stampa dei libri, che ha visto in queste settimane gli impianti al lavoro per esempio per le commesse della scolastica francese.
Al lavoro sul proprio core business (le agende di cui è leader del mercato) sono anche alla Boost spa di Marzio Carrara dove l’iniziale idea di produrre mascherine è stata abbandonata. L’imprenditore bergamasco sta invece puntando sulle nuove richieste provenienti dal mercato per una ripartenza in sicurezza dell’economia e delle attività (negozi, uffici, centri commerciali, supermercati ecc.). Così, all’insegna del progetto “Proteggiamoci e ripartiamo”, la Cpz di Costa di Mezzate, azienda specializzata nella stampa digitale, sta proponendo una serie di prodotti anti-contagio come le barriere in policarbonato e plexiglass, dispenser per guanti o disinfettanti, visiere, totem segnaletici anche con materiali riciclabili.
Le visiere
L’idea di produrre mascherine, o meglio visiere, è venuta anche alla siciliana Zeta Printing, storica tipografia palermitana, già alla terza generazione. Una scelta nata, ricorda il titolare Sergio Zito, dalla necessità di sopravvivere alla crisi determinata dal lockdown (con i dipendenti in ferie forzate) e di essere utili alla comunità. Così Zeta Printing è passata dal packaging di lusso per il settore agroalimentare (che ha risentito dell’emergenza Coronavirus e ha visto una riduzione delle commesse di imballaggio) alle visiere per proteggersi dal Coronavirus. Il progetto delle visiere protettive è nato tutto in casa, 100% made in Italy anche per i materiali. Realizzata in Pet trasparente dello spessore di 500 micron, sostenuta da un elastico che passa dietro alla testa e tenuta in posizione da una fascetta all’altezza della fronte, la visiera Zeta Printing è stata promossa dal mercato anche fuori dalla Sicilia e se ne producono circa 1.000 pezzi al giorno (grazie anche al plotter Valiani installato proprio un mese prima che l’Italia fosse fermata dalla pandemia e con una linea di fustellatura Saroglia). Pezzi venduti a 4,90 euro più Iva. Un prezzo, sottolinea Zito, che consente una remunerazione e ha permesso di richiamare una parte dei dipendenti al lavoro, ma è ben lontano da quelli applicati da chi specula sul Coronavirus.
Di Achille Perego
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