Che forma sta prendendo lo smart working in questi anni post-pandemia? Il futuro sembra a un bivio, tra smart working vero e il lavoro a distanza
di Sergio Facchini
Oggi, dopo l’esteso ricorso al remote working durante i due anni di pandemia, non sono molte le aziende pronte a mantenere questa organizzazione del lavoro. I lavoratori dipendenti possono essere suddivisi in tre tipologie: “smart worker” (27%) con vari tipi di flessibilità e orientamento ai risultati; “remote non smart worker” (21%) con la esclusiva flessibilità del lavoro da remoto, come già sopra accennato per i “responsabili di area”; “on-site worker” (52%), la maggioranza, che lavorano o possono lavorare solo in azienda sulla base della loro qualifica e del lavoro che svolgono. Tra queste tre categorie i più soddisfatti per benessere, sia psicologico sia relazionale, sono i primi, i veri smart worker, mentre le altre due categorie non hanno realmente cambiamento rispetto a quanto già facevano e per gli “on site worker”, non avendo alternative, devono necessariamente recarsi tutti i giorni nel luogo di lavoro spesso anche affrontando turnazioni differenti. Da uno studio statistico elaborato dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, uno smart worker su tre dichiara un elevato benessere relazionale, che arriva al 42% come benessere psicologico, percentuali che crollano dal 18% e al 29% negli altri casi. In pratica i migliori risultati si ottengono applicando un “sistema ibrido”. Il solo lavoro da remoto, se non inserito in una cornice più ampia di flessibilità e revisione dei processi, può condurre a esiti negativi per produttività e benessere. La diffusione dello smart working ha portato numerose organizzazioni e persone a confrontarsi con un modo di lavorare radicalmente diverso rispetto a quello adottato prima della pandemia. Spesso, però, quello che era definito come tale non era altro che lavoro da remoto, che ha consentito di gestire le emergenze e supportare il work-life balance delle persone, ma non ha portato a un vero ripensamento del modello organizzativo. Il vero smart working deve essere l’occasione per attuare un cambiamento basato sulla misurazione degli obiettivi e su una digitalizzazione intelligente delle attività. Da uno studio condotto dall’Osservatorio del Politecnico di Milano nel 2022, è emerso che il 95% degli smart worker vorrebbe proseguire in futuro con un numero medio di giornate da remoto di 11/15 giorni/mese, opzione applicabile in modo differente tra grandi imprese, PMI e PA e con una serie di “pro e contro” sia per l’azienda sia per il lavoratore.
Lo smart working fa risparmiare?
Meno tempo perso e meno costi di viaggio per recarsi da casa a ufficio e viceversa, ma anche ottimizzazione degli spazi per l’azienda che così riduce gli uffici, non più fissi e personalizzati ma disponibili per ciascun dipendente che arriva in azienda, e di volta in volta occupa una postazione disponibile senza lasciare device e oggetti personali sulla scrivania. Dunque lo smart working fa risparmiare? Nel complesso la risposta è affermativa. Visti i recenti rincari, anche l’impatto sui costi energetici dello smart working sarebbe positivo, con un risparmio potenziale di circa 500 euro l’anno per ciascuna postazione. Se a questo si associasse la riduzione degli spazi del 30% con il desk sharing e un ripensamento in chiave social, il risparmio potrebbe arrivare fino a 2.500 euro l’anno a lavoratore. Quest’ultimo se operasse due giorni a settimana da remoto risparmierebbe circa mille euro all’anno sui costi trasporto, risparmio che però si riduce a una media di 600 euro a causa dei maggiori consumi domestici di luce e gas. Le aziende potrebbero valutare di restituire ai lavoratori una parte del risparmio ottenuto ma, dall’Osservatorio del Politecnico di Milano emerge che oggi solo il 13% delle aziende intervistate prevede bonus o rimborsi per gli smart worker. Molte aziende, che stavano già sperimentando il nuovo modello organizzativo prima del Covid, avevano già riorganizzato gli spazi comuni in ufficio, per altre aziende è un aspetto nuovo da gestire. Infatti, nonostante tutti i limiti che ancora si riscontrano nel lavorare da remoto in modo più o meno smart, ci sono state resistenze a riprendere abitudini pre-Covid con il ritorno in ufficio, per il 68% delle grandi aziende e per il 45% della PA. Le aziende private premiate agli Smart Working Award 2022 hanno lavorato molto anche sugli spazi per renderli adatti al nuovo modo di concepire il lavoro.
Il caso Baker Hughes
In particolare, Baker Hughes, la multinazionale tecnologica per il settore energetico, nel Campus di Firenze con 4 mila persone dislocate in più edifici, già dal 2016 offriva lo smart working come flessibilità spaziale e temporale. Sono stati disegnati spazi, secondo il concetto di “Activity based Working”, per essere accoglienti, inclusivi e sostenibili non solo rispetto all’ambiente, ma anche rispetto all’equilibrio tra vita privata e attività lavorativa. Per esempio, sono state introdotte stanze per l’allattamento; soluzioni per le diverse disabilità e bagni per il gender neutro. Inoltre, l’azienda ha voluto essere aperta e riconoscibile anche dall’esterno, con murales visibili da fuori realizzati dagli studenti di alcune scuole di Firenze. Oggi oltre il 50% della popolazione aziendale utilizza la modalità ibrida del lavoro. La media di lavoro fuori ufficio è di tre giorni alla settimana, le postazioni si prenotano visto che meno di un terzo della superficie è dedicata a scrivanie individuali, mentre è molto frequentata la caffetteria, per dialogare, confrontarsi e risolvere problemi. L’azienda fornisce anche benefit per la formazione, con un budget a persona per aggiornarsi dove e come preferisce, con l’unica accortezza di condividere poi l’esperienza con i colleghi per diffondere la conoscenza in azienda e stimolare il confronto tra le persone.