L’hanno già chiamata la tassa sui sacchetti della frutta e della verdura anche se non si tratta di un’imposta, perché nelle casse dello Stato entrerà solo l’Iva al 22%. Dal 1° gennaio dell’anno prossimo i sacchetti nei quali mettiamo le pere, le mele, l’insalata o le zucchine, infatti non saranno più gratuiti ma a pagamento. Un obbligo previsto, recependo la direttiva europea 720 del 2015, dal DL Mezzogiorno del 3 agosto.
La direttiva europea ha obbligato gli Stati dell’Unione a varare provvedimenti atti a ridurre il consumo e l’abuso dei sacchetti di plastica, nocivi per l’ambiente. Quelli che si comprano alle casse, per mettere la spesa, già da alcuni anni si pagano (in media 10 centesimi) e per legge devono essere biodegradabili. Quelli che invece utilizziamo per mettere la frutta e la verdura e di cui ne utilizziamo circa 8 miliardi l’anno contrariamente a quello che si pensi, sono di polietilene, in gran parte fabbricati in Cina. E sono la causa, avverte Marco Versari, presidente di Assobioplastiche, non solo di uno spreco di consumi (tanto sono gratis) ma anche di un uso distorto perché vengono utilizzati per la raccolta differenziata ma in realtà non sono biodegradabili.
Dal 1° gennaio, le nuove norme obbligano i commercianti, dal piccolo negozio ai mercati e al grande centro commerciale, a utilizzare per l’ortofrutta ma anche altri cibi freschi come la carne o il pesce solo sacchetti monouso prodotti con materiali ecocompatibili e riutilizzabili. Sacchetti che dovremo obbligatoriamente pagare alla cassa, con il prezzo inserito nello scontrino, altrimenti i commercianti rischiano multe salate da 2.500 a 25.000 euro e fino a 100mila se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica o se il valore delle buste fuori legge è superiore al 10% del fatturato del trasgressore.
Il costo dei nuovi sacchetti per l’ortofrutta biodegradabili, avverte sempre Versari, non può essere affatto considerato come una tassa e difficilmente sarà di 10 centesimi a sacchetto, essendo quelli della frutta e verdura almeno quattro volte più piccoli di quelli che si comprano alle casse. Del resto l’obbligo del pagamento ha fatto sì che proprio l’uso dei sacchetti della spesa sia diminuito del 50%. E sostituire i sacchetti cinesi di plastica per la frutta e la verdura con quelli biodegradabili, che vede una forte presenza delle aziende italiane, sarà un vantaggio, oltre che per l’ambiente, per la filiera produttiva del nostro Paese. Una filiera specializzata e all’avanguardia sul fronte del packaging biodegradabile.
La nuova normativa, che non potrà non favorire la produzione dei sacchetti “verdi” in Italia, contrastando l’import dalla Cina, stabilisce anche che i sacchetti leggeri e ultraleggeri, ovvero con spessore della singola parete inferiore a 15 micron, siano biodegradabili e compostabili, con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile di almeno il 40% (dal 2020 questo tasso salirà al 50% e dal 2021 al 60%). Non poco se si considera che il consumo pro-capite è stimato in 180 sacchetti monouso all’anno per un giro d’affari che sfiorerebbe i 400 milioni di euro, incassati in parte dal distributore, in parte dal produttore e in parte anche dallo Stato sotto forma di Iva o imposta sui redditi. Del resto l’Italia è il secondo consumatore di plastica in Europa dopo la Germania: più di 7 milioni di tonnellate nel 2015, in leggero aumento rispetto all’anno precedente. Il contributo più significativo a questo cumulo di plastica viene dai materiali per confezioni: stando ai dati più recenti, 2,3 milioni di tonnellate di plastica per imballaggi vengono annualmente utilizzati nel nostro Paese. In altri termini, nel cestino di un italiano finiscono in media 38 chili di plastica ogni 12 mesi, un dato che ci colloca al terzo posto in Europa dopo Lussemburgo e Irlanda. Ma quanta di questa plastica viene poi riciclata o riceve un altro impiego utile? In Italia ancora molto poca in confronto ai Paesi europei più virtuosi. Secondo il rapporto Plastic Facts 2016 pubblicato dall’Ue, infatti, quasi il 40% dei rifiuti plastici finisce in discarica contro le percentuali prossime allo zero di Svizzera, Austria, Olanda e Germania. Migliore la performance nel riciclaggio con un dato vicino al 30% che colloca l’Italia in linea con gli altri Stati membri. Dove il gap sembra davvero incolmabile è nel recupero delle plastiche non riciclabili, che moderni impianti possono trasformare in energia e calore. Un impiego alternativo all’avanguardia ampiamente diffuso – con percentuali vicine al 70% – nei Paesi in cui lo smaltimento in discarica è vietato, ma che da noi stenta a decollare.