​«Prima di Franco Maria Ricci non esisteva il concetto di libro di lusso inteso come un libro prodotto con materiali ricercati. E non c’è mai più stato nulla di simile. Siamo partiti con Franco Maria Ricci e lo ringrazieremo sempre, perché ha creduto in noi e ci ha fatto crescere, tanto che oggi, a quarant’anni di distanza, lavoriamo ancora nello stesso settore», dice Nicola Gilardi, ceo di Grafiche Milani, una delle aziende di stampa che nel corso degli anni ha stampato (anche se dire “stampato” può risultare riduttivo) i volumi dell’editore, collezionista d’arte e appassionato bibliofilo Franco Maria Ricci (nella foto a sinistra), scomparso dopo una lunga malattia lo scorso 10 settembre nella sua casa a Fontanellato, in provincia di Parma, all’età di 82 anni.

Chi era Franco Maria Ricci

Franco Maria Ricci nacque a Parma il 2 dicembre 1937, e iniziò la sua attività di editore negli anni Sessanta, dopo essere rimasto folgorato dall’incontro con l’opera di Giambattista Bodoni. Proprio con una ristampa anastatica del “Manuale Tipografico” cominciò la sua carriera: un’opera in tre volumi tirati in 900 esemplari numerati, su carta di Fabriano e rilegati in pelle nera. In un’intervista a Repubblica del 2014, Franco Maria Ricci definì Bodoni “un genio del carattere”: «Mi invaghii del “Manuale tipografico”. Cominciai a tormentare gli antiquari per avere i suoi libri. Bellissimi. Unici. Con pazienza misi insieme una collezione ragguardevole di testi. Che fu alla base della mia casa editrice. Era il 1965», disse Ricci, aggiungendo poi come gli fossero subito chiari i pilastri su cui costruire i prodotti di questa sua casa editrice: «Una la grafica, l’altra la letteratura. Mi fu immediatamente chiaro il progetto: fare libri smaglianti, esclusivi che andassero nella direzione opposta a quella di una cultura acquistata a buon mercato. Giulio Einaudi, con un sorrisetto di sufficienza, mi sconsigliò di continuare, pena la catastrofe – continua Ricci nell’intervista -. Non capiva, o faceva finta di non capire, che se il mondo è pieno di poveri ci sono anche tanti ricchi disposti a seguirti. Del resto, a quale categoria crede lui appartenesse?».

 

 

 

 

 

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Ci ha lasciato il più grande editore che è riuscito ad aumentare la bellezza dell’arte: Franco Maria Ricci Siamo orgogliosi ed onorati di aver lavorato per i suoi progetti. Grafiche Milani vuole ricordarlo insieme alle sue grandi opere.

Un post condiviso da Grafiche Milani – Graphic (@grafichemilanigraphic) in data: 14 Set 2020 alle ore 10:02 PDT

 

La carta

Ed è proprio sulla pubblicazione di libri smaglianti ed esclusivi che Franco Maria Ricci puntò. Nel 1972 diede inizio alla stampa della Encyclopédie de Diderot et d’Alembert e creò le collane di volumi d’arte “Quadreria” (misure 30×30 cm circa, stampati su carta vergata azzurrina di Fabriano, rilegati in seta “Orient” nera con plancetta a colori e impressioni in oro e racchiusi in un cofanetto serigrafato; tavole a colori applicate a mano) e “I Segni dell’Uomo” (35×23 cm, stampato su carta vergata azzurrina di Fabriano e rilegati in seta “Orient” nera), due delle collane più famose dell’editore parmense. E c’è proprio un volume dell’Encyclopédie, fra quelli firmati da Franco Maria Ricci disposti sul tavolo della sala riunioni di Grafiche Milani, mentre Nicola Gilardi racconta cosa significasse produrre volumi per questo editore. «A rilegare l’Encyclopedie a mano, ricordo, era la Legatoria Piolini. La società non esiste più ma il suo legatore sì e noi di Grafiche Milani ancora collaboriamo con lui per i volumi in pelle», spiega Gilardi, che poi si sofferma sulla carta utilizzata per le pubblicazioni di Ricci: «La stampa era fatta su carta Ingres di Fabriano tirata a mano, e quella azzurrina era prodotta apposta per Franco Maria Ricci nel formato e nella grammatura. La Fabriano faceva questa particolare carta in una ventina di tonalità, e l’azzurro era stata una scelta estetica che ha contraddistinto molti dei volumi di Ricci. Non era nemmeno facile da stampare, perché sull’azzurro i colori viravano (non si stampava nemmeno il bianco prima): probabilmente erano state fatte delle prove con altri colori e l’azzurro era risultato il colore che meno faceva virare la quadricromia», spiega Gilardi. Fabriano tutt’oggi identifica la particolare grana della superficie e l’inalterabilità dei colori alla luce come le caratteristiche principali della carta Ingres (è possibile leggerne la descrizione sul sito di Fabriano), una carta vergata adatta per edizioni di pregio e altri prodotti di stampa. «La carta poi veniva tagliata e livellata, ma non in tutti i volumi: per alcuni la carta era già nel formato giusto per la pubblicazione, per cui veniva solamente piegata. Certo, dovevi avere un lato dritto perché altrimenti la macchina da stampa non teneva il registro, ma se avevi già la carta nel formato giusto bastava quello», continua Gilardi passando il dito sul bordo irregolare delle pagine di un volume. 

Ma non tutto veniva stampato sulla Ingres: «Alcune tavole (soprattutto quando c’era del bianco nell’immagine) venivano stampate a parte su carta patinata e poi venivano applicate a mano. Per metterle dritte sulla pagina venivano stampati tre puntini neri in corrispondenza di dove sarebbe stata applicata la colla vinilica: non so perché avesse scelto di incollare proprio in tre punti (foto a sinistra), ma ricordo che c’era un addetto che applicava pochissima colla (perché se ne viene messa troppa la carta si bagna e si rovina) in corrispondenza di questi segni stampati e attaccava le tavole in maniera perfetta. Una a una», continua il ceo di Grafiche Milani.

Il controllo

Franco Maria Ricci era un editore esigente: i libri che portavano la firma della sua casa editrice non dovevano presentare la minima imperfezione per poter arrivare sul mercato. «La ricerca della qualità era spasmodica – ricorda Gilardi – ma il bello e il lusso non erano fini a sé stessi, dico davvero: al minimo problema (che poteva essere un puntino di sporco su una pagina), il libro veniva scartato. Ogni volume veniva controllato a mano, pagina per pagina, e se perfetto veniva inserito un foglietto con scritto “controllato” e firmato dalla persona che si era occupata dell’esame. Ricordo che, una volta stampate e allestite, mandavamo le copie alla persona che si occupava del controllo per Ricci, e le copie che non passavano la valutazione perché difettate ci venivano rispedite: se possibile venivano aggiustate, altrimenti venivano buttate», dice Gilardi. 

Elementi caratteristici delle pubblicazioni di Franco Maria Ricci erano l’utilizzo della seta nera (“il nero era il suo colore preferito”, dice Gilardi) per le copertine – eccezioni sono alcune edizioni dell’Encyclopedie, “in pelle nera, blu e in seta marrone” – e la produzione di un cofanetto, sempre da parte del legatore, che contenesse il volume. «Ne venivano fatte poche copie alla volta e di solito in due, tre lingue: italiano, inglese, spagnolo o francese, che secondo me venivano venduti all’estero. Alla fine si facevano tre o quattro libri all’anno con una lavorazione molto meno industrializzata di ora: su una macchina lavoravano almeno tre persone più il capo reparto, e anche le linee di legatoria era molto più lente e meno tecnologiche rispetto a quanto non siano oggi: c’erano diverse persone a lavorare su questi volumi, ognuna con il suo compito specifico», continua Gilardi. 

​La fotolito

Ma la parte più complessa di tutto il lavoro era quella che precedeva la stampa: la fotolito. «Molti degli operatori di Graphic che oggi lavorano per noi (l’azienda è stata acquisita da Grafiche Milani nel 2017, ndr) erano fotolitisti e uno di loro è stato proprio il fotolitista di Franco Maria Ricci. Al giorno d’oggi di professionisti che conoscano il colore così e che sappiano fare le correzioni cromatiche (che ormai si fanno tutte con Photoshop su Mac) non ce ne sono più: una volta era fatto tutto a mano sotto lo sguardo del cliente che controllava. Il signor Alfonso (questo il nome del fotolitista di Graphic) si ricorda di quando Franco Maria Ricci veniva a supervisionare la qualità delle prove colore fatte a torchio e a vedere la resa dei colori stampati per tutti i soggetti, a cui seguiva il controllo della dottoressa Laura Casalis: era più lei la tecnica, lui era più il supervisore della parte artistica, della bellezza», spiega il ceo di Grafiche Milani (nella foto a sinistra), che confessa di non ricordare il numero di titoli del catalogo di Ricci stampati dalla sua azienda nel corso degli anni: «Di sicuro l’Encyclopedie, e poi una trentina credo. Molto bello era il Codex Seraphinianus dell’artista italiano Luigi Serafini». 

Un tempo fare libri richiedeva tanto tempo perché tanto tempo serviva per fare la fotolito, che a sua volta richiedeva foto di altissima qualità e una luce della fotografia perfetta. «La fotolito può copiare all’80-90% l’originale: la stampa non perde la qualità della fotolito ma non può nemmeno migliorarla, quindi bisogna cercare di arrivare più possibile vicini alla qualità della prova colore per ottenere il miglior risultato. E se la fotolito è fatta da persone valide, la stampa riesce a copiarla quasi al 100%. La scansione dell’originale veniva fatta con degli scanner lentissimi che ci mettevano delle ore a farne una; poi il colore veniva diviso in quattro pellicole e una volta fatta la stampa a torchio della prova a colore, il cromista (questo il nome di chi si occupava delle correzioni colore) le modificava sulle pellicole con il pennello e dopo le acidava: era un lavoro pazzesco», ricorda Gilardi, che poi si sofferma proprio su come venivano fatte le prove colore: «Si facevano le prove a torchio con le progressive, che erano delle prove colore separate prima di arrivare alla quadricromia: magari nero+giallo, nero+giallo+rosso… i vari colori venivano stampati singolarmente per vederne la densità: in altre parole andavi a vedere ad esempio quanto “blu” c’era sulla progressiva. E se ce n’era troppo, il colore veniva corretto sulla lastra con degli strumenti da alchimista o per abrasione, grattando leggermente con delle polveri per abbassare l’intensità del colore. Se la stampa durava una settimana, il fototilista poteva metterci anche un mese o due a fare le prove. E c’erano avviamenti che duravano due ore, con il cliente di fianco a controllare. Adesso è tutto una corsa. Gli avviamenti che oggi fai in pochi minuti, all’epoca li facevi in ore… e forse deriva da lì il nome di “arti grafiche”. C’era chi era capace e chi no. È un lavoro in cui bisogna credere, e in cui anche oggi bisogna far convivere l’artigianalità e l’industrializzazione del prodotto. Il bello è che nonostante tutto questi oggetti sono rimasti, e ancora oggi se dici “Franco Maria Ricci” parli del bel libro», conclude Gilardi, sorridendo.

di Giulia Virzì

Foto in apertura di Grafiche Milani.

​Foto di Franco Maria Ricci da ilsole24ore.com